Francesca Ferrari


Abbiamo pensato che fosse in un certo senso necessario affidare il ricordo di questa amica-collega che se ne è andata poche settimane fa – il 20 maggio – ad una sua foto, evento raro-unico nella storia di RdI–AIR (Rivista dell’Infermiere – Assistenza Infermieristica e Ricerca), perché ci sembra sia un regalo dovuto a tutte/i coloro (certo la maggioranza) che non hanno avuto l’esperienza – dolcezza, intelligenza, allegria, silenzio – di conoscerla.
Queste note di ricordo vogliono essere di fatto un prolungamento – senza tempo – della cosa più semplice e profonda che Francesca ha portato-rappresentato in RdI–AIR: uno sguardo che non si stancava mai di incontrare-esplorare-evocare altri sguardi-volti dentro e fuori la rivista ed il mondo infermieristico, con una nostalgia infinita, molto concreta, sempre nuova: quella di vederli coinvolti nella ricerca di senso attraverso e al di là di non importa quale opacità, o ripetitività, o disillusione.




• Forse è proprio questo suo sguardo di nostalgia-al-futuro che ne ha fatto la vera fondatrice dell’avventura di questa rivista. È stata lei – con Francesco De Fiore: sarebbe stato bello avere una loro foto insieme di quei tempi “antichi”, inizi degli ‘80, quando, in sanità tutto sembrava aperto al futuro – a convocarci un giorno per immaginare insieme di creare uno spazio di pensiero che fosse nello stesso tempo un laboratorio di rapporti umani, dove gli sguardi ed i volti fossero più importanti dei ruoli e delle mansioni.

• Della “fondatrice” non aveva nulla. Veniva da una storia, personale ed istituzionale, che era passata per continenti lontani come l’Australia e la esperienza organizzativa-culturale di una regione “d’avanguardia e di tradizione” come quella dell’Emilia Romagna: ma si portava dentro ed addosso uno stile di leadership che era quello del seme: che sa, per istinto, e per obbligo, i tempi lunghi e sempre precari che intercorrono tra la semina, il divenire visibili, il prendere volto ed autonomia, come una identità che ogni giorno deve essere un po’ nuova se vuole essere la traduzione nella realtà dei sogni appena abbozzati degli inizi. È stato il suo stile di sempre. Una presenza che non amava mai occupare spazio: alla quale ci si rivolgeva: dalla quale ci si sentiva guardati: curiosa, in attesa e con l’urgenza di sapere, e di contribuire così a far nascere, il passo successivo.




• In quello strano gruppo iniziale – fatto di giovanissime, e di adulti - ormai - anziani, infermiere e non - che discuteva e cercava di riformulare idee e definizioni del nursing (v. RdI 1/1982), Francesca portava – e avrebbe continuato a farlo – la saggezza tranquilla, non-invadente, ma che diveniva imprescindibile, della sua specialità, che era il nursing della vita. Ci diceva così – parlando poco, e scrivendo ancor meno – che era non solo ovvio e necessario, ma soprattutto possibile, avere come garanzia principale di fare una ricerca sensata a livello professionale, la capacità di essere ricercatrici di senso, a tempo pieno, sui rapporti e le passioni del vivere come persone in un mondo, che tanto più diventava (ed era importante saperlo e viverlo) senza confini apparenti tanto più aveva infinito bisogno di persone-intelligenze-progetti capaci di essere appassionate/i dei bisogni e delle contraddizioni di “qui-ed-ora”.

Era per questo che di Francesca sono state importanti anche le assenze, “lontano”: in Bolivia, in Africa, per tempi mai pre-annunciati in termini di lunghezza, né dettagliati come contenuti. Sapevamo del suo essere altrove non attraverso cronache-rapporti regolari, ma per quel passaparola (avevamo con lei imparato questo metodo irrinunciabile di continuità) che era il raccontarci – non importa se per frammenti, o per: “sai, ho sentito F.”, “F. sta lavorando…” – i tanti modi con cui si ricerca di essere compagne/i di strada dei tanti e diversi volti che si incontrano, e che hanno lo stesso bisogno almeno di echi-riflessi di quella “nostalgia-al-futuro” da cui era iniziato il camino di questa rivista. Non per “far del bene”. Ma perché si è appassionati (“innamorati”, avrebbe detto Francesca, o certo avrebbe pensato, senza dirlo, come ha sempre fatto) del diritto di tutte/i alla dignità del vivere.

Perché, in fondo, c’è bisogno della stessa continuità tra nursing professionale e nursing della vita, non importa se si vive-lavora nella cooperazione e nelle case per anziani, nella riabilitazione dei disabili o nel “tener per mano” (che è uno nomi del caring) bambini abbandonati e affamati, tanto da essere perfino incapaci di piangere perché non ne hanno diritto, e sanno che nessuno li ascolta…. Sarebbe bello un giorno poter raccontare – come modello di ricerca-narrazione – questi tempi-luoghi di vita di Francesca: che “travestiva” la sua presenza nella vita degli altri delle tante identità che si era trovata ad indossare-essere nella vita: da madre di cinque figli, ad amica-compagna di donne che come lei inventavano reti di nursing-di-vita nelle montagne-città di Bolivia, ad accompagnatrice silenziosa di tante solitudini e di tante domande senza risposta nella sua vita degli ultimi anni.

• È bello ricordare Francesca come una persona che è rimasta solare anche nei tanti anni del suo molto, lungo, tanto diverso star male: non per aggiungere un altro tratto “esemplare” al suo profilo. Al contrario. Per la stessa “normalità” con la quale aveva attraversato tutta la sua e nostra storia. Con la sua fisicità da antica perenne mamma, è passata nella nostra vita con una infinita leggerezza. Farne un modello, da qualsiasi punto di vista, la farebbe sorridere stupita: “ma, allora, non avete capito niente….”: e le tracce di accento bolognese che le erano rimaste attaccate strette strette al di là di tutte le migrazioni avrebbero accentuato l’ironia ed un po’ il fastidio del pensarsi come “esempio” da lodare o solitudine da riempire.

• È bello ringraziarla anche, e soprattutto forse, per questo: di questa sua coerenza anche metodologica con la sua identità di fondatrice-seme: ciò che meglio giustifica un ricordo pubblico e su questa rivista da parte di persone sospettabili di “bias”, per le ovvie ragioni dell’amicizia. Francesca non ha fatto altro che riproporre riprodurre quello che è forse il più vecchio e sicuro criterio per assicurare la affidabilità e la praticabilità di una ricerca: farne un progetto di cui essere personalmente, a fondo, responsabili, e pronti a renderne conto, senza enfasi e senza sconti: per farne un cammino da condividere, non di cui appropriarsi. Così da potersi scambiare sguardi che generano una “paziente-impazienza” nel camminare, e che rendono “ragione della speranza che ci abita”. E pensiamo che queste minuscole, non invadenti, citazioni dalle lettere di Paolo le sarebbero piaciute, facendola sorridere.


Alvisa,
Dida,
Gianni,
Luisa,
Maria Angelica,
Mariuccia,
Paola