L’autonomia differenziata: un indicatore molto didattico di priorità

Gianni Tognoni

Fondazione Lelio e Lisli Basso

Per corrispondenza: Gianni Tognoni, giantogn@gmail.com

Questo numero di AIR esce in un tempo talmente pieno di eventi internazionali che renderebbero obbligatoria un’attenzione esclusiva, tanto sono non solo drammatici, ma indicano più a fondo una crisi globale di civiltà: dalla Palestina, all’Ucraina, alla conferma di una politica europea che dichiara che non c’è posto nelle nostre società per i migranti, a una vigilia di elezioni nel paese miticamente simbolo di democrazia, gli USA, con due candidati surreali, alla scelta italiana di essere un modello per l’Europa nel credere più alle armi che alla sanità come motore di sviluppo. La lista potrebbe continuare. Ma non è questo evidentemente l’interesse di un editoriale con un titolo tutto italiano.

Lo scenario globale che si è potuto solo ‘evocare’ (si danno, almeno un poco, per acquisiti i dettagli essenziali dei suoi temi principali) serve di fatto solo da ‘contrasto’ a un altro scenario con radici strettamente pertinenti ad AIR e alle priorità del mondo infermieristico italiano. È di questi giorni il rapporto annuale dell’ISTAT, che documenta la crescita della povertà assoluta, soprattutto al Sud; i LEP-LEA sono rimandati a tempi migliori; si fa una campagna elettorale europea senza nessun contenuto europeo, salvo il fatto che la NATO non si tocca e perciò si può non parlarne; si moltiplicano statistiche di tutti i tipi che dicono che questo governo sembra molto impegnato a peggiorare, nella sanità, nell’educazione, nella ricerca, il trend al ribasso ben radicato nella storia recente del paese (questa ‘deriva’ è stata trattata spesso su queste pagine, il che ci dispensa anche qui da ulteriori precisazioni).

Ed eccoci al tema centrale dell’editoriale, quello dell’autonomia differenziata (AD), che permette di capire meglio il perché degli scenari preoccupanti da cui si è partiti: l’acronimo AD, che lo riassume, è il più breve e più gettonato negli ultimi mesi (al quale dedichiamo in questo numero uno spazio ad hoc, pp 91-95), ma viene qui assunto come indicatore di una sfida più generale che tocca da vicino, in modo specifico, il mondo sanitario. In ogni società l’universo della salute è di fatto memoria ed espressione concreta (almeno dal tempo dell’inizio della società mondiale come ‘progetto di ricerca di democrazia’ a livello italiano, con gli artt. 3 e 32 della nostra Costituzione, e internazionale, con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani) del diritto e del dovere di essere, come identità comunitaria, soggetti protagonisti di un progetto che mira ad assicurare ‘dignità-cura’ alla vita: tutte, tutti, senza distinzioni, senza lasciare indietro o espellere nessuna/o.

Nella sintesi estrema delle due lettere del suo acronimo, l’AD (insieme alle protagoniste, opposte ma complementari delle due recensioni, la migrazione-guerra, pp 96-99) riassume ed esplicita tutte le sfide, durissime, che stiamo vivendo: in Italia, ma sapendo che restringendo l’attenzione al nostro paese non si rende più facile, ma più difficile fino a essere ingestibile, il comprendere ciò che succede, ed essere così informati sul che fare. E prima ancora: sul chi essere. È bene dunque essere informati sul messaggio di fondo del nostro acronimo, AD: non solo per le scelte politiche, importantissime, ovviamente: ma che soprattutto dovrebbero avere come interlocutori critici e determinanti coloro che operano in e attorno alla salute, e dovrebbero perciò essere informate/i.

La realtà che sta dietro la D non è un aggettivo: nel mondo globale, e sempre più italiano (lo ricordava sopra l’ISTAT), la ‘differenza’ non è declinata come indicatore imprescindibile delle diversità di cui devono essere ricche le democrazie. La D che conta, anche nella letteratura ‘sanitaria’ più autorevole, è quella della diseguaglianza. Economica, sociale, culturale. L’epidemiologia concorda in questo senso con l’economia più avvertita: se si vuole capire qualcosa dei bisogni di salute (non solo di sanità: di vita) e perciò degli investimenti da fare (sono questi, non i costi, gli indicatori che contano, anche e soprattutto per il PIL), occorre stratificare le popolazioni, al di là delle classiche variabili sanitarie (fino all’indice Charlson…) per la loro autonomia economica: i salari/guadagni/beni/case… non importa che cosa. Quello che conta è l’aggettivo di questi termini: che indica una variabile che gli economisti-ragionieri, che sono in via di trasformazione algoritmica, fino alle grandi prospettive dell’IA preferiscono evitare: l’aggettivo è ‘vitale’. Ciò che permette una dignità di vita che sia autonoma, cioè non dipendente da ricatti di lavoro, di scuola, di figli che non si possono avere. Come per la D incerta tra differenza e diseguaglianza, anche ‘vitale’ può essere declinato per identificare un’autonomia che coincide con un cammino verso l’universalità dei diritti, o un’autonomia che consacra la differenza come la diseguaglianza senza possibilità di rimedi, anzi in crescita programmata.

Il ‘dibattito’ per l’AD non è dunque solo il prodotto di una politica che mira a ‘spezzare l’Italia’ come denunciato congiuntamente da una cittadina del mondo e della storia come Liliana Segre e dai costituzionalisti più avvertiti. Formulata con una sottocultura giuridica riconosciuta da tutti come stupefacente, e come strumento violento per affermare che la democrazia parlamentare ha fatto il suo tempo, la prospettiva di un’AD deve essere vista (da operatori sanitari non rassegnati, o contenti di sviluppi che promettono meraviglie anche per una flessibilità più grande del mondo del lavoro) come un vero test predittivo del paese in cui si potrà operare. E come uno strumento per capire come ci si potrà sentire in un’attività professionale che dovrà sempre più obbedire all’‘appropriatezza’ economica, e perdere, pian piano o velocemente, la memoria del tempo in cui i ‘valori’ potevano cercare di tradursi in LEA/LEP gestiti in una logica di ‘cura condivisa’.

Con un’ultima, brevissima, ma imprescindibile osservazione, rispetto a una realtà che è vera, e determinante, per tutti gli scenari ricordati sopra. Tra le tante cose di cui si è parlato e si parla – a proposito di PNRR, di AI, di digitalizzazione… – l’accordo più grande è sul fatto che essere gestori dei dati (assunti ad avere un nome globale, indefinito, intoccabile, tutto maiuscolo: BIGDATA) significa non solo avere vantaggi conoscitivi, ma essere padroni delle realtà che stanno dietro/dentro i dati, grandi o piccoli, macro o micro, privati o pubblici. L’AD è una guerra di dati. Solo un terzo degli abitanti del Sud la vorrebbe, contro il 60% di quelli del Nord: ma dove sono i dati con cui discutere le implicazioni di queste diversità enormi come alfabetizzazione capillare per fare scelte informate? Su tutto – è bene dirlo per l’ultima volta: questo breve acronimo, AD, è molto importante! – vale lo stesso gioco di nascondimento. I dati che quantificano le diseguaglianze sono un’alluvione che inonda tutto: tanti, ripetitivi, terrorizzanti per i ‘poveri’, i ‘differenziati’ per esclusione, per i quali l’autonomia delle scelte di vita è il nome di un miraggio, una nostalgia che rimane tale. Loro ‘vivono’ rinchiusi nelle percentuali, che li quantificano, e li destinano a restare, più o meno, quello che sono. L’AD dovrebbe essere, per tutte le epidemiologie – al plurale: tante, dal basso, ‘differenziate’ ma per essere visibilità-voce di realtà diverse, per bisogni e per risposte da cercare per ogni comunità concreta – il promemoria che il loro ruolo è quello di ridare visibilità, coscienza, forza a chi è ‘oggetto’ di tutte le statistiche interessate a rendere obbligatorie le sostenibilità che mantengono-accrescono i privilegi. L’AD è il segnale di allarme definitivo per coloro che si interessano di salute-democrazia del fatto che le epidemiologie devono stare dalla parte di chi sta peggio: come strumento di liberazione, non come strumento che permette ai padroni dei dati di mascherare la vita delle persone e delle comunità concrete.