Proposta di consenso informato per la sperimentazione dell’autonomia differenziata

A cura della Redazione

Summary. Proposal for informed consent for the ‘differentiated autonomy’ experiment. Differentiated regional autonomy means the power given to the 15 ordinary Regions – the 5 special Regions are excluded – to obtain regulatory and management competences in areas that are today regulated and administered by the State. Although differentiated autonomy is bad for the entire country – which risks losing its ability to implement economic, social, environmental, and cultural policies at a national level – there is no doubt that the Southern Regions will pay the heaviest price for its implementation, since they are already far behind and penalised compared to the North, with a worsening of all the health parameters, such as: reduction in life expectancy, increase in avoidable mortality, increase in mortality, increase in trips of hope to seek treatment in the North, and more. But the North will also have its problems, with poorer areas even within the richest regions and in the urban peripheries. And if the idea of solidarity, contained in the Constitution, is rejected, it is easy to move from competition to conflict, not only between North and South but also within the Regions.

Key words. Differentiated autonomy, regions, health system, rights, inequalities.

Non c’è dubbio che il tema proposto in questa prospettiva, che riguarda non solo l’ambito sanitario, ma tutti i servizi e il welfare, sarà uno dei nodi centrali della politica nazionale dei prossimi mesi e uno dei capitoli più controversi. Lo spazio infermieristico – in continua evoluzione per contenuti e appartenenze delle competenze professionali, per le implicazioni economiche a livello salariale, per i rapporti tra privato e pubblico, per i rapporti tra ‘datori di lavoro’ di ambito più o meno direttamente sanitario – ha e avrà sempre di più una importanza determinante. Non è ovviamente questa la sede per una discussione diretta e di fondo del tema, ma una cosa è certa: indipendentemente dalla sua evoluzione o dal suo risultato, lo scenario che si apre si configura come un grande ‘esperimento’, di cui sono molto incerte le condizioni di controllo. Si tratta di fatto di una vera sperimentazione, istituzionale e culturale, che confronta due ‘protocolli’ radicalmente contrapposti:

1) da una parte, l’evidenza-legittimità della Costituzione che nel suo art. 3 pone la ricerca dell’uguaglianza come priorità inviolabile, per quanto difficile;

2) dall’altra, l’ipotesi, certo curiosa, che un aumento programmato e perseguito delle diseguaglianze economiche e strutturali possa produrre più uguaglianza nella fruizione dei diritti.

Si è ritenuto che una rivista, che da sempre cerca di confrontarsi con gli aspetti di sua competenza in termini di ricerca, dovesse segnalare esplicitamente l’ingresso in una sperimentazione ad alto rischio, caratterizzata da bias metodologici, e ancor più da impatti non solo genericamente etici, ma di diritti fondamentali. Il mondo infermieristico è allo stesso tempo, più degli altri cittadini e professionisti italiani, sia oggetto ‘reclutato’ obbligatoriamente (anche se non con la neutralità di una randomizzazione), sia soggetto-osservatore-operatore. Questo piccolo esercizio di riflessione, accompagnato da testi che possono arricchirlo con dati più precisi, è una proposta di ‘consenso informato’ (NdR).

Il primo testo è tratto dal prologo e dal primo capitolo del libro di Francesco Pallante, professore ordinario di Diritto Costituzionale dell’Università di Torino, dal titolo evocativo Spezzare l’Italia, Einaudi Editore, pubblicato nell’aprile 2024.

“Uno scenario a breve scadenza: Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – le regioni più ricche del paese, che assieme valgono il 40% del PIL nazionale – mettono fine all’unità d’Italia. […]

Gli insegnanti diventano dipendenti regionali; le grandi reti infrastrutturali sono frammentate e ripensate, dando priorità alle esigenze del sistema economico locale; Comuni e Province perdono autonomia e si trasformano in enti a disponibilità delle Regioni.

Lo Stato si ritrova privo delle leve essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche, di respiro nazionale. L’amministrazione pubblica è disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventano regionali, in altri rimangono statali. Le imprese sono chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività.

Le Regioni non sono un male. Ma nemmeno un bene. Sono-devono essere istituzioni rivolte, come tutte le istituzioni che compongono la Repubblica, al conseguimento dell’obiettivo ultimo della Costituzione: il pieno sviluppo della persona umana, condizione necessaria affinché tutti possano effettivamente partecipare alla vita politica, economica e sociale del paese. […]

In via di approssimazione, per autonomia regionale differenziata si intende la facoltà attribuita alle 15 Regioni ordinarie – le 5 speciali sono escluse – di ottenere competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nel testo della Costituzione del 1948: è stata introdotta, modificando l’art. 116, con l’ampliamento dei poteri delle Regioni promosso dall’Ulivo nel 2001 (la famosa “Riforma del Titolo V”, parte II della Costituzione). […]

Volendo proporne un quadro ordinato, si ottiene il seguente risultato:

• diritti fondamentali quali la salute, l’istruzione (la scuola, l’università e la ricerca scientifica), il lavoro, la previdenza complementare, la giustizia di pace;

• il paesaggio e i beni culturali;

la tutela dell’ambiente, i rifiuti, le bonifiche, la caccia;

• la difesa del suolo, il governo del territorio, le infrastrutture, i porti e gli aeroporti, il rischio sismico, la protezione civile;

• le acque demaniali, il servizio idrico, i laghi;

• attività produttive quali il commercio con l’estero, l’agricoltura e i prodotti biologici, la pesca e l’acquacoltura, gli incentivi per la montagna, il sistema delle camere di commercio, gli istituti di credito, le politiche industriali e i fondi di sostegno delle imprese, le cooperative, la comunicazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia;

• l’autonomia tributaria, le zone franche, il coordinamento della finanza pubblica regionale;

• gli enti locali.

In tutte queste materie lo Stato potrà perdere quasi ogni ruolo, demandando alle Regioni le competenze in cui si articolano. […]

Prendiamo il caso della sanità. Le Regioni intenzionate a incrementare le proprie competenze in quest’ambito potranno volersi occupare – e in effetti, vogliono potersi occupare – dell’organizzazione generale del Servizio Sanitario Regionale (SSR), della struttura amministrativa interna delle ASL e degli altri enti che operano nell’ambito del SSR, dell’offerta sanitaria ospedaliera e territoriale, della definizione del fabbisogno del personale secondo le diverse tipologie contrattuali (quanto personale a tempo indeterminato, determinato, in convenzione), delle scuole di specializzazione e dell’impiego anticipato degli specializzandi (e, in caso di necessità, anche dei semplici laureati), della regolamentazione della libera professione del personale medico (che coinvolge la delicatissima questione dell’attività svolta privatamente a pagamento dai medici pubblici), dell’integrazione delle condizioni contrattuali dei dipendenti della sanità regionale, della compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria tramite i ticket, dell’istituzione di fondi sanitari integrativi, della programmazione degli investimenti in edilizia e tecnologie sanitarie, della remunerazione delle prestazioni acquistate dai privati, della definizione dell’equivalenza terapeutica di farmaci e vaccini, della loro distribuzione ed erogazione. Insomma, la configurazione del servizio sanitario e il suo finanziamento, la definizione delle modalità di erogazione delle prestazioni, la disciplina del rapporto di lavoro del personale dipendente, gli interventi di investimento in strutture e strumentazioni, il rapporto di lavoro con i privavi, i farmaci. Di fatto, tutto ciò che riguarda l’amministrazione sanitaria e la tutela del diritto alla salute e che oggi, in parte significativa, ricade ancora nella competenza dello Stato”.

Il secondo contributo, A rischio l’unità della Repubblica italiana di Loretta Mussi, membro dell’esecutivo nazionale contro ogni autonomia differenziata (AD), offre una lettura dettagliata non solo della ‘storia’ dell’AD ma anche delle implicazioni operative più concrete.


“Prima di affrontare le ricadute che l’AD avrà sulla salute e sulla sanità, è utile riassumere brevemente il percorso che l’ha preceduta. Questa iniziativa ha avuto origine con la Lega, e successivamente è stata fatta propria anche dal centro-sinistra, ma non è emersa immediatamente. Nel frattempo, però, ci sono stati importanti cambiamenti nel nostro sistema statale, caratterizzati da una progressiva verticalizzazione delle istituzioni di governo del paese, cui ha corrisposto parallelamente lo svuotamento di ruolo e importanza delle assemblee elettive, come i consigli comunali, regionali e, infine, il Parlamento. Questo processo è stato facilitato anche dalla degenerazione del sistema politico e dei partiti e dalla superficialità con cui si è guardato alle trasformazioni che avvenivano sotto i nostri occhi: due leggi elettorali dichiarate incostituzionali per violazione del principio di uguaglianza del voto, tre parlamenti eletti con una legge elettorale incostituzionale e i proclami della Lega. Inoltre, più di 5 anni fa è iniziata, in gran segreto, a opera di tre Regioni, l’operazione che ora vediamo alle sue battute finali, il cui esito, se non sarà fermato, sarà la rottura dell’unità della Repubblica.

Le preintese sono state scritte sulla base di un’interpretazione molto di parte dell’art. 116, comma 3, del Titolo V della Costituzione come modificato nel 2001, che ha introdotto la regionalizzazione di diverse materie. Esse sono state concordate, guarda caso, tra le tre Regioni più ricche – Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto – e il Governo Gentiloni, dimissionario, alla vigilia delle elezioni del 2018 (per la precisione 4 giorni prima). Cioè, un Governo che era in carica per il disbrigo degli affari correnti ha assunto decisioni che coinvolgevano modifiche costituzionali! Potenzialmente, oltre alle concorrenti, tutte le materie in capo allo Stato possono essere devolute: si tratta di 23 materie, che si articolano a loro volta in oltre 500 funzioni.

Avremo (se tutte le Regioni vorranno il trasferimento completo delle materie) 21 staterelli semi-indipendenti in competizione, la fine dell’unità della Repubblica, la perdita di peso dello Stato che non avrà più gli strumenti per realizzare politiche sociali, ambientali, culturali ed economiche per il paese e intervenire nelle aree più disagiate. È ciò che voleva la Lega dei primi tempi: autonomia, autarchica e concorrenza, molto vicina alla secessione. Le scelte sono di carattere localistico contro ogni logica odierna di sviluppo, anche in settori come trasporti, ambiente, governo del territorio, dove le dinamiche sono non solo sovraregionali ma sempre di più sovranazionali.

Questo risulta molto chiaro se si considerano alcune delle materie richieste dalle tre Regioni che hanno siglato le preintese – Lombardia (23 materie), Veneto (23), Emilia-Romagna (16). Il loro esempio sarà seguito, presumibilmente, in parte o completamente, dalle altre Regioni.

Salute. Nei quasi 25 anni della regionalizzazione introdotta dal nuovo Titolo V che trasferiva molte competenze sulla sanità alle Regioni, queste si sono rese fortemente autonome, tanto che le differenze tra le Regioni, per i servizi sanitari, sono già ora molto marcate. Con l’AD l’autonomia sarà totale. Non ci sarà più un unico Servizio Sanitario Nazionale (SSN) con uguali diritti, ma avremo diversi sevizi regionali o sistemi regionali, come si dice adesso, con diversità di trattamento e aumento delle disuguaglianze.

• Il Veneto ha chiesto anche la contrattazione integrativa regionale per i dipendenti, aprendo così alla concorrenza tra Regioni, di fatto favorendo il trasferimento di personale dal Sud al Nord e vanificando la contrattazione collettiva nazionale, con grave danno dei sindacati.

• Le altre due richieste che sancirebbero la fine del SSN pubblico, accessibile e uguale per tutti, riguardano la determinazione del sistema tariffario e il rapporto con i privati – criteri di rimborso e accreditamento, istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi, welfare integrativo aziendale, accelerazione della privatizzazione della sanità – già in corso. Oggi, la copertura pubblica della spesa sanitaria è ancora al 74%, ma sta progressivamente diminuendo mentre cresce la spesa privata, con Regioni, come il Lazio e la Lombardia, in cui il privato supera il 50%. Già ora oltre 1/3 delle visite specialistiche e delle procedure diagnostiche sono a pagamento. Molti servizi, compresi i pronto soccorso (PS), sono esternalizzati. La riabilitazione domiciliare è in mano al privato e almeno il 62% della popolazione con limitazioni funzionali non riceve alcun servizio pubblico.

• Non si parla mai della prevenzione primaria, intesa come tutela della salute attraverso la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, intervenendo, insieme alle altre competenze, sul risanamento e l’innovazione dei settori produttivi, l’alimentazione, l’edilizia/urbanistica e il governo del territorio, l’agricoltura, l’energia, i rifiuti, trasporti e altri settori sensibili per la salute. Con l’AD la situazione non potrà che peggiorare perché lo spezzettamento delle funzioni e competenze ambientali in 21 Regioni impedirà lo studio e la messa in opera di una strategia per la prevenzione primaria.

L’istruzione è molto ambita, ed è comprensibile dal momento che la scuola concorre alla formazione dell’identità dei giovani. Si chiede che tutta l’organizzazione del sistema scolastico passi alle Regioni, oltre alla parificazione e a maggiori contributi per il sistema scolastico privato che si vuole rafforzare rispetto a quello pubblico. Si vuole infine porre la scuola al servizio delle esigenze delle imprese, che potranno quindi anche intervenire nella gestione degli istituti scolastici e nella definizione dei percorsi formativi. Tutte e tre le Regioni vorrebbero ancorare stabilmente la ricerca universitaria a quella industriale col rischio di marginalizzazione della ricerca di base, che non è finalizzata allo sfruttamento economico, ma è volta all’esplorazione autonoma e incondizionata nei diversi campi.

• Passeranno tutte le competenze che riguardano la tutela dell’ambiente e il governo del territorio (con ricadute pesanti sulla salute). Le principali sono: tutela delle acque superficiali e profonde, ivi compresa l’acqua per il consumo umano; valutazione di impatto ambientale dei grandi impianti (VA); gestione dell’intero ciclo di smaltimento dei rifiuti (localizzazione e tipo di impianti – inceneritori, discariche, riciclo) comprese le tariffe, assai remunerative, per lo smaltimento dei rifiuti provenienti da altre Regioni; bonifica e recupero di discariche e impianti industriali dismessi; interventi in difesa del suolo e sottosuolo; edilizia e urbanistica dove le Regioni premono per la semplificazione amministrativa, valutazioni del rischio sismico e adeguamento sismico degli edifici.

• Infrastrutture e sistema dei trasporti (strade, autostrade, ferrovie, porti e aeroporti): ad esse, alla loro proprietà, ambiscono, per ora, soprattutto Veneto e Lombardia. Per piegare il sistema alle esigenze locali e per condizionare i futuri interventi di manutenzione e ampliamento, anche se questo significa incidere su scelte che riguardano tutto il paese. Trasversale a tutte le materie saranno la richiesta di poter intervenire in deroga rispetto a tutti quei vincoli legati ai codici degli appalti e all’ambiente, con i quali oggi si riesce ancora a tutelare, bene o male, territorio e ambiente.

• Beni culturali. Tutte e tre le Regioni anelano a svariate competenze in questo campo. La Lombardia vuole tutti gli istituti e siti culturali per metterli a reddito, mentre l’Emilia-Romagna vuole tutti i musei presenti sul suo territorio, statali e regionali, con questi ultimi che ingloberebbero i musei statali. È presumibile che anche le richieste delle altre Regioni avranno come scopo principale più che la conservazione dei beni culturali la loro messa a reddito; e questo sarà per tutto il patrimonio dell’Italia, il più ricco del mondo!

L’intero sistema economico, compresi settori strategici per l’economia nazionale, è coinvolto nelle richieste di trasferimento delle tre Regioni, anche se ridurre le politiche industriali o energetiche al livello regionale è per lo meno irragionevole. L’indebolimento del potere centrale che seguirà avrà ricadute negative sull’intero sistema economico senza grandi vantaggi per le Regioni. Le conseguenze ricadranno soprattutto sulle Regioni del Sud: con un Sud impoverito e privo di risorse, a chi venderanno prodotti e servizi le imprese delle Regioni più ricche? Risponde Gianfranco Viesti, autore di numerosi libri sulla problematica: potranno ambire a concorrere con le imprese slovene, ceche e slovacche a iscriversi all’albo dei fornitori del sistema industriale tedesco.

Si creerà una situazione di caos normativo e di incertezza del diritto, come hanno osservato parecchi e importanti servizi e istituti (Banca d’Italia, Anci, Ufficio parlamentare di bilancio, Confindustria e altri ancora), con inevitabili riflessi sui costi.

Nel passaggio di materie e funzioni dallo Stato alle Regioni non ci sarà risparmio, ma al contrario aumenterà la spesa, perché in molti casi non passerà la totalità delle funzioni. Ci saranno quindi duplicazioni nella gestione amministrativa delle competenze: al centro, cioè nella capitale, rimarranno gli apparati necessari a esercitare le funzioni per le Regioni che non faranno richiesta di AD, o che la faranno in modo parziale, mentre le Regioni differenziate si dovranno dotare degli apparati amministrativi necessari, per cui ci sarà una pletora di piccole amministrazioni pubbliche. L’aumento della spesa sarà inevitabile a causa delle duplicazioni, ma anche perché verranno meno quelle economie di scala che si hanno nelle gestioni centralizzate e unitarie degli interventi. Anche le imprese incontreranno difficoltà nel dover affrontare la frammentazione normativa e amministrativa. Non c’è nessun costo zero, come dice il ministro Calderoli, ma aumento dei costi.

Il ricavato dell’imposizione fiscale resterà in gran parte (il Veneto lo vorrebbe tutto) in ciascuna Regione, e questo ridurrà enormemente la possibilità, per lo Stato, di operare la perequazione rispetto alle Regioni meno capienti. Se pensiamo che le tre Regioni che per prime hanno attivato l’AD e hanno siglato nel 2019 le preintese rappresentano attualmente il 40% delle entrate tributarie dello Stato, si comprende che allo Stato non resterà praticamente alcuna riserva per tentare di combattere le diseguaglianze, che sono destinate ad aumentare notevolmente.

Una questione molto discussa è stata quella dei Livelli Essenziali nelle Prestazioni (LEP), che, introdotti oltre 20 anni fa nel nuovo Titolo V, dovevano avere la funzione di guida per la ricognizione dei diritti civili e sociali dei cittadini, la individuazione delle prestazioni e la loro attuazione. Tuttavia non sono stati ancora né individuati né applicati ed è presumibile che non lo saranno nemmeno in futuro, perché il DDL Calderoli non ne prevede il finanziamento. Anche i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) in sanità, la cui individuazione è più semplice, sono applicati a livello minimo e in modo assolutamente incompiuto. I LEP sono stati fortemente criticati dalle più importanti istituzioni italiane sia rispetto al metodo con cui la problematica è stata gestita sia per la genericità dell’elaborazione.

Molti speravano che le leggi delle Regioni sull’AD non potessero essere approvate senza i LEP. Ma il DDL Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e delle altre Regioni possano essere approvate anche senza i LEP. Questo perché fonti del diritto di pari grado non possono vincolarsi l’una con l’altra; solo una fonte di rango superiore, come una legge costituzionale, può farlo verso quelle inferiori. Essendo l’AD contenuta in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le Regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti. Quindi i finanziamenti saranno indipendenti dai LEP e stabiliti da una commissione paritetica composta da Governo e Regione.

Residuo fiscale e secessione economica. Questa è la questione di fondo e la ragione principale che ha mosso le Regioni: trattenere quanti più soldi possibile dalle tasse che pagano allo Stato, attraverso il recupero di una buona parte del residuo fiscale, quello che eccede i servizi forniti dallo Stato. Questa volontà si basa su un imbroglio, perché non sono le Regioni a pagare le tasse né a essere le destinatarie della spesa pubblica, bensì i cittadini e le cittadine che pagano le tasse e ricevono servizi pubblici. Questo punto è molto importante perché dietro la questione del residuo fiscale non c’è solo una questione di impossessamento di soldi ma una visione ideologica, che vede il regionalismo e le Regioni come corpi separati dallo Stato che hanno una consistenza in sé e sono soggetti in quanto tali. Questa visione è scorretta perché le Regioni sono composte dai loro cittadini, che non costituiscono un popolo a sé stante ma sono parti del popolo italiano. Noi siamo cittadini italiani e poi cittadini delle Regioni. Altrimenti, se ci consideriamo in primo luogo cittadini delle Regioni prima che cittadini dello Stato, si va verso un discorso di tipo secessionista, come dice Gianfranco Viesti che, cogliendo questo punto, parla di “secessione dei ricchi”.

L’imposizione fiscale è nazionale, ed è finalizzata alla redistribuzione della ricchezza, secondo il principio della progressività fiscale (chi guadagna di più paga in percentuale una quota maggiore del proprio reddito rispetto a chi guadagna di meno). Ciò in base all’art. 53 e all’art. 2 della Costituzione, che prevede il dovere di solidarietà economica tra i cittadini.

Pur essendo l’autonomia differenziata un male per l’intero paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale –, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali, che già ora si presentano molto arretrate e penalizzate rispetto al Nord, con peggioramento di tutti i parametri sanitari, come riduzione della aspettativa di vita, aumento della mortalità evitabile, aumento della mortalità in senso stretto, aumento dei viaggi della speranza per farsi curare al Nord e altro ancora.

Ma avrà i suoi problemi anche il Nord, per la presenza di aree più povere pure all’interno delle Regioni più ricche e nelle periferie urbane. E se si rinnega l’idea della solidarietà, contenuta nella Costituzione, è facile passare dalla competizione al conflitto, non solo tra Nord e Sud ma anche all’interno delle Regioni.

Oltre allo Stato e al Parlamento, che non avrà più alcuna voce in capitolo, saranno indeboliti i Comuni, che sono istituzioni plurisecolari nonché i mattoni fondamentali dell’Italia. Loro, a dispetto dell’art. 3 della Costituzione, l’autonomia la perderanno. Da loro bisognerà ripartire”.