La formazione infermieristica
professionalizzante italiana
e la sua silente rivoluzione

Anne Destrebecq
Vicepresidente Commissione Nazionale Corsi di laurea in Infermieristica
Professore Associato Università di Milano
Per corrispondenza: Anne Destrebecq, anne.destrebecq@unimi.it


Quest'anno si celebrano i primi vent'anni della formazione infermieristica italiana in università. In questi anni, si sono realizzate tante innovazioni, molte delle quali centrate proprio sul tirocinio che costituisce ancora, come da sempre peraltro nella nostra tradizione, il cuore della formazione infermieristica. Nella prima fase di transizione dalle scuole alla formazione universitaria, lo sforzo più importante era valorizzare la formazione professionalizzante ed attribuirle la dignità che aveva sempre ricoperto; erano gli anni in cui la prima monografia sul tirocinio, ospitata proprio dalla Rivista dell'infermiere, 1 aveva orientato e guidato lo sviluppo di un sistema di tutorato anche nei contesti universitari, e la trasformazione del tirocinio da esperienza pratica ad esperienza di apprendimento clinico adatta a un percorso universitario.
La rilevanza dell'apprendimento clinico (o tirocinio) sta nella sua capacità di aiutare lo studente ad apprendere il ruolo, a sviluppare identità ed appartenenza professionale, ad esporsi a modelli di ruolo e a socializzare con la professione ed i suoi valori. In questo tempo agli studenti veniva chiesto non solo di fare (apprendistato) ma soprattutto di apprendere dall'esperienza (pensare sul fare) sotto la guida di infermieri esperti, per allenarli ad una pratica riflessiva. Non erano più tanto le abilità tecniche che preoccupavano quanto, piuttosto, la capacità di continuare ad apprendere, di prendere decisioni assistenziali, riflettendo sulle proprie esperienze e valutandole criticamente.
Il peso delle attività formative professionalizzanti, anche con il passaggio in università, era rilevante: minimo 60 crediti formativi su 180 della laurea triennale, quindi un terzo della formazione complessiva; tuttavia inferiori alle 2400 ore di presenza effettiva nei servizi prevista dalle scuole regionali e questo ha richiesto una riconsiderazione sulle molte attività che concorrono ad un apprendimento clinico professionalizzante. Tra queste: laboratori preclinici di skills pratico-relazionali, simulazioni, sessioni di analisi di casi,  ad esempio per sperimentare alcune abilità che nel contesto clinico sono rare o da perfezionare; studio individuale per pianificare l'assistenza a un paziente affidato o per elaborare un report; sessioni di briefing e debriefing, esperienze di tirocinio nei servizi di circa 6-7 settimane ciascuna con piani di apprendimento ben focalizzati sugli obiettivi che lo studente deve raggiungere.
La Conferenza Nazionale dei corsi di laurea con la sua commissione che raccoglie tutti i corsi di laurea in infermieristica italiani, ha guidato i successivi sviluppi, attraverso linee guida2,3,4 e sessioni pedagogiche, per confrontarsi, discutere e definire un core curriculum e competenze core, per orientare gli insegnamenti teorici, gli obiettivi di tirocinio e la valutazione delle competenze professionali apprese dallo studente.
Sono state attivate molte sperimentazioni che hanno prodotto, tra l'altro, una profonda riflessione sui modelli di tutorato. Si è andata via via delineando una cultura della tutorialità diffusa in due declinazioni principali: la formazione degli infermieri a una funzione di guida-supervisione nelle sedi di tirocinio e un secondo livello di tutorialità, con persone dedicate, distaccate presso il corso di laurea.5 In molte sedi sono stati formati all'insegnamento clinico gli infermieri che affiancano gli studenti. Il ruolo dei tutor universitari è molto variabile, anche a causa della grande disomogeneità di dotazioni: da un tutor universitario ogni 30 studenti, a 1 a 100, con ovvie ripercussioni sulla possibilità di fare un'effettiva supervisione e sulla costruzione di  ambienti di apprendimento di qualità. I tutor universitari hanno, di fatto, poche occasioni di contatto con la clinica e quindi poche possibilità di mantenere un campo di expertise in un settore dell'infermieristica, presupposto fondamentale per una qualità della docenza e per lo sviluppo di progetti di ricerca.
I formatori dell'infermieristica italiana, in modo silente, hanno rivoluzionato sia concettualmente che in pratica i tirocini; rimangono però numerosi nodi irrisolti: la presenza degli studenti in tirocinio si è ridotta con la formazione universitaria, quindi se ne deve aumentare efficacia e rilevanza per l'apprendimento; non tutta l'esperienza pratica si trasforma in apprendimento: l'apprendimento si ottiene con un coinvolgimento attivo dello studente. I contesti sanitari sono in rapida evoluzione: reparti che vengono accorpati, riduzione dei posti letto, periodi di degenza più brevi, alta complessità dei pazienti, aumento delle patologie croniche e delle disabilità, contesti di assistenza che si estendono sempre più sul territorio. I servizi sanitari sono “travolti” da continue richieste di innovazioni e sempre più frequentemente pongono limiti al numero di studenti da accogliere o chiedono di essere sollevati per alcuni mesi. È sempre più pressante il problema della sostenibilità dei tirocini che, se da un lato ha stimolato l'accreditamento di sedi tradizionalmente poco considerate (RSA, lungodegenze, assistenza domiciliare, hospice) dall'altra richiede di non replicare modelli di tirocinio ospedaliero, ma confrontarsi con questi cambiamenti e con la necessità di ripensare, adattare e riprogettare i tirocini, con modalità adatte a questi nuovi contesti.
Queste riflessioni hanno motivato un gruppo di docenti universitari e tutor a costituire, un anno fa, un gruppo di ricerca, definito con l'acronimo SVIAT (Strumento Italiano per la valutazione dei tirocini clinici), che ha deciso di esplorare gli elementi che contribuiscono a rendere una sede di tirocinio un ambiente di apprendimento clinico di qualità.6 Da subito si è confrontato con i numerosi strumenti di valutazione della qualità degli ambienti di tirocinio, valutandone potenzialità e limiti, ma ritenendo di perseguire un obiettivo ambizioso: creare uno strumento adatto al contesto italiano e contestualmente promuovere una fase di confronto culturale ed operativa attraverso il fare ricerca insieme, coinvolgendo tutti i corsi di laurea in infermieristica italiani. A nome della commissione nazionale ringrazio Assistenza Infermieristica e Ricerca che ospita in questo numero gli approfondimenti ed i risultati che ri-focalizzano l'attenzione – dopo quasi vent'anni – sul tirocinio.


BIBLIOGRAFIA

1. Zanini L, Saiani L, Renga G. Figure e metodi della tutorship nel diploma universitario per infermiere. Riv Inf 1998;17:129-63.
2. Saiani L. Tutorato, tirocini e rapporto teoria-pratica: i nodi aperti. Rivista dell'infermiere 1998:17;134-8.
3. Palese A, Dal Ponte A, Bernardi P, Biasi A, Brugnolli A, Saiani L, et al. Dalle competenze-esito al piano degli studi del corso di laurea in infermieristica. Una proposta orientata ai learning outcomes. Quaderni di Medicina e Chirurgia 2008:42;1798-805.
4. Saiani L, Bielli S, Marognolli O, Brugnolli A. Documento di indirizzo su standard e principi del tirocinio nei CL delle Professioni Sanitarie. Med Chir 2009:47;2036-45.
5. Saiani L, Bielli S, Brugnolli A. Consensus Conference: documento di indirizzo sulla valutazione dell'apprendimento delle competenze professionali acquisite in tirocinio dagli studenti dei corsi di laurea delle professioni sanitarie. Med Chir 2011:53;2343-55.
6. Palese A, Destrebecq A, Terzoni S, Grassetti L, Altini P, Bevilacqua A, et al. Strumento di Valutazione Italiano degli Ambienti di Tirocinio per gli studenti infermieri (SVIAT): protocollo di validazione Assist Inferm Ric 2016;35:29-35.