Per ricordare Mariuccia Ottone

A cura della Redazione


“Col garbo e la gentilezza che hanno contraddistinto tutta la sua esistenza, in una sfilacciata domenica di luglio, senza clamori né esternazioni, degni di una vita dedicata alla vicinanza del dolore degli altri, ci ha lasciato Maria “Mariuccia Ottone”. Comincia così il ricordo di Giuliana Busto, presidente AFeVa (Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto) compagna di lotte di Mariuccia per la battaglia contro i signori dell’eternit, pubblicato su Il Monferrato, il 20 luglio scorso.1
Mariuccia Ottone ha cominciato a lavorare negli anni '60, dal 1970 ha diretto la scuola infermieri dell'Ospedale San Carlo e dal 1973 quella dell'Ospedale Maggiore di Milano Policlinico, fino al 1994, facendole raggiungere, a fine anni '70, assieme ad altre scuole regionali, livelli notevoli di eccellenza ed innovazione e diventando leader per le altre scuole. Già nel 75 pubblicava riflessioni su come tenere collegate teoria e pratica e come migliorare la formazione per migliorare l'assistenza.2 Rigorosa nelle scelte e nella vita, quando è andata in pensione ha voluto chiudere con Milano e con l'infermieristica- che ha però continuato a seguire da esterna, perché a suo avviso non aveva più niente da dire (come si sbagliava…) e voleva lasciare spazio alle nuove generazioni, per dedicarsi alla battaglia contro l'amianto, che aveva mietuto tante vittime anche nella sua famiglia, compreso il fratello e la cognata, partecipando, instancabile, a tutte le udienze del gruppo Eternit. Mariuccia è stata nella redazione di AIR dalla sua fondazione nel 1982 fino al 1998, quando la Rivista è diventata Assistenza Infermieristica e Ricerca. Proprio su AIR aveva scritto il suo ultimo contributo uscito a più mani sul legame tra rischio e causalità nei disastri ambientali. 3 La ricordiamo nelle lunghe riunioni di redazione a Roma, in quelle serali milanesi, negli immancabili e frequenti week end di lavoro per discutere, riflettere sulla rilevanza di quanto si faceva e poteva essere fatto per la professione e per questioni più generali di salute pubblica.

La ricordiamo con le parole di Dario Laquintana, suo allievo, collaboratore ed amico.


la signorina ottone

Primo giorno dell’allora Scuola per Infermieri Professionali dell’Ospedale Maggiore di Milano Policlinico.
Entrò in aula con il suo portamento eretto, la voce chiara, una lievissima cadenza piemontese e una indiscussa aurea di competenza e professionalità. Ci presentò il corso in modo chiaro e inequivocabile: 4600 ore in tre anni tra lezioni in aula e tirocinio in reparto, contabilizzate in modo rigoroso, perché la Legge si rispetta e perché le ore previste dall’Accordo Europeo sulla formazione dell’Infermiere sono intese non come un obbligo, ma come una necessaria opportunità di apprendimento per formare un infermiere, se non alla pari dei colleghi inglesi, almeno non pericoloso per i malati.
Il calendario dal giorno successivo prevedeva otto ore al giorno di lezione dal lunedì al venerdì, con un'ora di pausa. Tutte le materie, oltre ai tirocini, dovevano risultare sufficienti per l'ammissione all'esame ed i primi due mesi sarebbero stati ‘di prova'. Un solo mese di ferie estive e due settimane a Natale. Le ore di assenza andavano recuperate. Null'altro.
Ci informava anche che avremmo cambiato amici, fidanzate/i, abitudini e perso tanto sonno. Terminò dicendo che la Scuola era come una sartoria in cui si confezionava il nostro vestito professionale. Se sarebbe stato un abito elegante o un perizoma dipendeva solo da noi, perché eravamo noi a portare la stoffa.
Restammo silenti, traumatizzati e increduli. Tre anni dopo chiesi, da diplomato di poter risentire la presentazione del corso, per constatare che era tutto assolutamente vero. Perché Mariuccia, quella che tutto il resto dell’ospedale con un senso di rispetto e di reverenza chiamava “la signorina Ottone” era così, vera come la vita.
Un modello professionale irraggiungibile con un profondo senso civico. Insegnava il rispetto per lo Stato, la Legge e la cosa pubblica, intesa come cosa di tutti i cittadini che, come lei, “…pagavano le tasse”.
Un modello non solo nelle aule. Una volta stabilizzato il gruppo dei docenti e la didattica tornò in reparto tutte le mattine con gli allievi del primo anno e per farlo scelse il reparto più complesso (ed organizzativamente ed assistenzialmente abbandonato) dell'ospedale, cambiando la qualità delle cure ai malati. Tutti gli allievi, a cui dava rigorosamente del ‘lei', dovevano passare un periodo di tirocinio con lei perché quello che uno sapeva doveva dimostrare di saper fare e saper essere, e perché chi insegnava l'assistenza doveva essere modello di ruolo non solo nelle aule.
In una Scuola con un alto livello formativo, ed un altrettanto alto tasso selettivo, riuscì a dimostrare un'infinita tenuta alla pressione: la pressione dei politici, che chiedevano più infermieri anche non ‘troppo preparati', la pressione sociale, in anni in cui la promozione era un diritto, in un ospedale e negli anni in cui i terroristi uccisero il direttore sanitario e gambizzarono quello che allora era il “capo infermiere”.
Non volle mai avere un Corso per Caposala. Quando in Assessorato Regionale, nella riunione di programmazione annuale, le comunicarono un anno che comunque lo avevano assegnato alla sua Scuola sbottò dicendo che aveva sperato di terminare la sua carriera senza quella ‘onta professionale’. Organizzò un corso bellissimo e innovativo, coinvolgendo docenti scelti dalle facoltà più prestigiose delle università milanesi (la Bocconi per il management, la Cattolica per la pedagogia e psicologia, la Statale per la medicina, il Mario Negri per la ricerca) che venivano ad insegnare quasi gratis ma convinti da lei e dal progetto pedagogico.
Oltre alla didattica, l'altra passione era per la ricerca, intesa nella sua forma più nobile come possibilità di ampliare le conoscenze, in un periodo in cui l'H index non esisteva ma esisteva la necessità di costruire un forte corpo di conoscenze disciplinari come unica via di affermazione dello status di professione intellettuale per l'infermieristica che viveva l'esercizio vincolata dal mansionario.
Traghettò la formazione negli anni del passaggio all'Università, passando giornate in interminabili riunioni per far sintesi dei programmi di studio e per far entrare la formazione in un mondo difficile, che almeno inizialmente non ci voleva e ricordava che la 502/92 era una legge di riforma sanitaria, non universitaria.
Quando andò in pensione fece quello che forse non era meglio per lei, ma era giusto fare.
Lasciò Milano, con i cinema, le mostre, i teatri e gli amici che avrebbe finalmente avuto tempo per vedere, per tornare nella sua Casale Monferrato in cui affondava le sue radici, a fare l’infermiera occupandosi dei suoi cari e impegnandosi nel sociale per la salute e per l'ambiente.
Solo allora riuscii a darle del ‘Tu'.
Ma se devo scegliere un momento, un’immagine, per ricordarla mi piace tornare con il pensiero a una sera di primavera a Milano, in una uscita in gruppo con studenti e docenti a vedere uno degli ultimi spettacoli di Giorgio Gaber al Teatro Lirico, per coniugare intelligenza, cultura e critica sociale. Proprio come Lei.

Dario Laquintana


BIBLIOGRAFIA

1. Busto G. Impegno, tenacia, umiltà: la battaglia di Mariuccia. Il Monferrato, 20 luglio 2018.
2. Ottone M. Nuovi programmi nei corsi infermieri per un cambiamento innovativo nella professione e per migliorare l'assistenza al paziente. Prof Inferm 1975;28:117-21.
3. Di Giulio P, Ottone M, Portaluri M, Tognoni G. Dossier. Rischio e causalità nei disastri ambientali. La popolazione e i lavoratori di Casale Monferrato: il caso Eternit. La popolazione e i lavoratori di Taranto: il caso ILVA. Assist Inferm Ric 2013;32:92-111.