Farsi trovare pronti.
Giocare con le parole per interpretare il cambiamento

Luca De Fiore
Il Pensiero Scientifico Editore
Per corrispondenza: Luca De Fiore, luca.defiore@pensiero.it


Da quattro anni, gli ultimi giorni di gennaio coincidono con una iniziativa organizzata dalla casa editrice di AIR. Si svolge a Roma, con grande partecipazione, cresciuta negli anni, di rappresentanti politici e culturali del mondo sanitario italiano, relatori e ospiti internazionali. Il titolo dell'iniziativa ne riassume in modo molto efficace ed originale l'obiettivo e la filosofia di base: Forward. In un mondo, non solo sanitario, che si riconosce fortemente in crisi di identità e di senso, la sfida sta nell'avere in testa un futuro, per essere in grado di vivere con intelligenza non rassegnata il presente identificando parole-chiave e percorsi che siano sperimentazione di innovazione e collaborazione. L'evento che quest'anno si è svolto il 30 gennaio rappresenta il momento pubblico di confronto su un percorso che si è sviluppato lungo i dodici mesi precedenti, con una serie di quattro approfondimenti ognuno dei quali è dedicato ad una delle parole-chiave che sono simbolo, traccia, strumento di un progetto che, attraverso una riflessione articolata sulle parole, prova a delineare un linguaggio ed una prospettiva a misura delle difficoltà che ci si trova a vivere. Dato il grande interesse dei temi trattati e la vivacità dei dibattiti, si è pensato fosse utile fare tesoro di quell'esperienza, immaginandone una versione per il mondo infermieristico, che certamente condivide tante delle incertezze e dei termini di riferimento che hanno fatto sentire il bisogno di un 'forward'. Abbiamo pensato che, facendo tesoro dell'esperienza degli anni scorsi, non ci fosse nessuno più adatto dell'editore a darci indicazioni per un' iniziativa che speriamo vivamente possa farsi carico di almeno alcune delle parole chiave, tanto più che l'universo sanitario è sempre più che incerto – un-prepared, per echeggiare la conclusione dell'editoriale? – nel riconoscere esplicitamente, cioè nella realtà dei fatti e non delle raccomandazioni, che il mondo infermieristico è (dovrebbe essere?) uno dei suoi forward culturali, per divenire strutturali. (NdR)

Cos'è un cucchiaino? Un mezzo minuto di raccoglimento. Ragionando sulle parole torna spesso in mente la frase ascoltata durante un incontro con Stefano Bartezzaghi, osservatore raffinato di giochi e linguaggio. Infatti, anche le parole che usiamo di più nascondono dei significati – o un senso ulteriore – che varrebbe la pena riportare alla luce. È questo che cerca di fare il gruppo che porta avanti il progetto Forward, fatto da persone che lavorano nella ricerca epidemiologica, nella comunicazione della salute e nell'industria. In quattro anni ci siamo chiesti cosa sia il valore e cosa possa distinguerlo dai valori. Abbiamo cercato di mettere ordine nelle espressioni big data o intelligenza artificiale. Ci siamo domandati perché parole come engagement o empowerment dovessero essere preferite alle possibili traduzioni in italiano o se la sostenibilità del sistema sanitario fosse solo un problema di costi e non anche di equità.
Il prossimo approfondimento riguarderà gli spazi della cura. È un tema fortemente multidisciplinare che attraversa il servizio sanitario e riguarda tutti gli attori che lo fanno vivere e lo utilizzano. In questo caso le parole e i concetti sui quali riflettere sono più d'uno: spazi, cura e spazi-della-cura. Capovolgendo la prevalente ottica medicalizzante, lo sguardo si poggerà in primo luogo sulla strada che è per eccellenza il luogo dell'incontro, della possibile condivisione, della solidarietà. E dell'esclusione. Spazi della cura sono anche i consultori, gli ambulatori della medicina generale e della pediatria di famiglia, i servizi per la salute mentale, i reparti ospedalieri, l'hospice. Lo sono – o dovrebbero esserlo – anche le carceri: “case” circondariali o di reclusione, tanto per restare in tema di parole senza senso. Spazio della cura sono pure quelli che devono rendere possibile la (dis) continuità assistenziale per legare luoghi che restano invece molto spesso distanti tra loro, non solo geograficamente. Nelle pagine di un libro sulla cronicità uscito di recente viene ricordato che “luoghi della cronicità” sono le automobili bloccate dal traffico, i parcheggi che non si trovano perché quelli per i disabili sono occupati, gli autobus che non arrivano mai: “Tutto è difficile dentro e intorno al luogo di cura, che sembra essere fatto per tipi sani e atletici che si spostano con facilità, fanno le scale di corsa e possono evitare le lunghe attese davanti agli ascensori perché ce n'è sempre uno fuori uso…” 1 Per colmare assenze e distanze, si cercano scorciatoie legislative, “piani nazionali” che rivelano tutte le proprie debolezze non appena si cerca di implementarli nel quotidiano e nei venti diversi sistemi sanitari regionali. Anche la Rete può essere spazio di cura, soprattutto grazie ai social media nonostante siano temuti da molti professionisti e ordini professionali e società scientifiche cerchino di mettere continuamente mano a regolamenti e guidance, altra parola alla moda.
Stiamo attraversando un tempo di cambiamento e la comunicazione gioca un ruolo particolarmente importante. La trasformazione ribadisce l'inevitabilità della mescolanza: tra i professionisti sanitari e i malati, ma anche tra persone colte e persone che lo sono di meno o, diversamente e più in generale, tra ragione ed emozione, tra oggettività e soggettività.2 È fuori luogo parlare di tutto questo come di una novità perché il mondo è da sempre plurale e “non abbiamo altra scelta che essere meticci.” Ed è proprio questa la scelta che è all'origine del nostro progetto che, giocando con le parole, ha provato a disinnescare le tentazioni identitarie che sono in ciascuno di noi e in ogni professione. La scelta di metodo è stata eliminare ogni steccato, superare qualsiasi chiusura. Non per negare le appartenenze ma per valorizzarle come patrimonio di competenze e di esperienze utili alla costruzione di qualcosa di nuovo e di diverso, molteplice per definizione.
L'obiettivo era e continua ad essere quello di proporre strumenti per interpretare il cambiamento e quando possibile anticiparlo. Perché – mentre si vive, si lavora, si patisce o ci si diverte – le cose avvengono. Avviene che molte persone non riescano a garantirsi neanche un reddito minimo sufficiente a sopravvivere o a condurre un'esistenza salutare per acquistare cibo sano per la famiglia, pagare un affitto o comprare vestiti per i figli. Avviene che in una città come Roma più di due persone muoiano a causa dell'inquinamento dell'aria ogni settimana. Avviene che in Italia siano più di mille ogni anno le vittime sul lavoro e che i casi di malattia professionale siano oltre 60 mila con un aumento di quasi il 3 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti. Cose scandalose – queste come tante altre – che quando ci vengono raccontate ci sorprendono: “Ma davvero?” Ci giustifichiamo dicendo che noi no, non c'entriamo. “Siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell'altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro”. 3 Avviene che è un'altra espressione sulla quale proveremo a ragionare, sapendo che al fatto che qualcosa sia successo senza che noi ne fossimo pienamente consapevoli deve necessariamente corrispondere un insuccesso personale o collettivo: un fallimento, insomma.
“Il fallimento è un grande insegnante”, ha scritto di recente in un editoriale il direttore del Lancet, Richard Horton.4 “Dovremmo onorare il fallimento. Viviamo nell'incertezza. Andiamo avanti per tentativi ed errori. E così impariamo dai nostri errori. La verità è che il fallimento è endemico: in laboratorio, nel fine vita, nella richiesta di finanziamenti e (ovviamente) quando si tratta di pubblicare il tuo articolo.” Nonostante sia sempre dietro l'angolo, l'insuccesso ci coglie di sorpresa. Il fallimento, poi, mal si concilia con la narrativa di una medicina onnipotente e “industriale” nel quale il prodotto non è la salute ma la prestazione sanitaria. Non è chic, l'insuccesso, e tantomeno può essere elegante ammetterlo. Insomma, avviene ma non siamo preparati. Al punto che una parola tra le più attuali per la sanità internazionale – preparedness – non ha un corrispettivo italiano.
Prepararsi al futuro non vuol dire predire cosa accadrà ma produrre saperi – attraverso la condivisione delle conoscenze – riguardo ciò che, nel presente, ci rende vulnerabili.5 Capitalizzare esperienze, pianificare le possibili risposte alle sollecitazioni legate all'introduzione dell'innovazione, valutare possibili contromisure utili alla gestione del rischio: tutto può contribuire a costruire gli strumenti utili a programmare il cambiamento. È un percorso che richiede tempo: “Preparedness is a journey, not a destination”.6 Per questo, Forward è un progetto che non ha fretta.


BIBLIOGRAFIA

1. Rinnenburger D. La cronicità. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2019.
2. Laplantine F, Nouss A. Il pensiero meticcio. Milano: Eleuthera, 2006.
3. Queste parole sono di papa Francesco, nel discorso di Lampedusa del 2013.
4. Horton R. Offline: It's time to prepare your anti-CV. Lancet 2019;394:1976.
5. Lakoff A. Unprepared. Oakland, CA: California University Press, 2017.
6. Working through an outbreak. Hearing before the House Committee on Government Reform. 108th Congress. 2006. Statement of John Agwunobi.